Carli Mario
Nacque a San Severo (prov. di Foggia) il 31 dicembre del 1889 da Enea e da Luisa Picciarelli. Il padre era romagnolo, la madre pugliese. La sua formazione di giovane letterato provinciale si nutrì soprattutto di letture d’avanguardia, o di quella che, appunto, si sentiva come avanguardia in un ambiente piccolo borghese di provincia Baudelaire, i simbolisti francesi, che giustificano il particolare significato che la sua produzione letteraria assume nell’ambito del futurismo. Il suo primo interesse giovanile fu dunque tutto letterario, se pure nella particolare forma contestataria del sistema e della tradizione che particolarmente caratterizza le avanguardie dell’inizio di secolo.
Trasferitosi giovanissimo a Firenze, il C. vi pubblicava nel 1909 il volume di novelle Le seduzioni.Intanto egli si legava di amicizia con un gruppo di giovani (Bruno Corra e Arnaldo Ginna, Emilio Settimelli e Remo Chiti, Maria Ginanni e Irma Valeria, fra gli altri), che formarono subito un piccolo nucleo compatto all’interno della giovane intellettualità fiorentina e, poi, del futurismo gruppo in fondo minoritario e in certo senso minore, che tuttavia instaurò una particolare prassi di lavoro collettivo e di gruppo, senza capi né gregari, che risulta particolarmente interessante. Notevoli sono la continuità dei rapporti di amicizia, di collaborazione professionale e, in parte, l’analogia di esperienze politiche che caratterizzano questo gruppo.
Con questo nucleo di giovani intellettuali non ancora futuristi il C. collaborò, dal 1909 al 1912-13, alle riviste Difesa dell’arte (diretta da E. Settimelli e V. Scattolini), Il Centauro e Rivista di scienze e vita, facendo la sua esperienza letteraria in un genere che assai restrittivamente si può definire di “prosa”; in realtà, le sue produzioni di questo periodo, particolarmente quelle apparse sul Centauro, sonopoemetti in prosa oppure romanzi (vedi Il Barbaro, storia enfatica di uno spirito, apparso a puntate sulla rivista), scritti secondo i dettami di una concezione estetica che privilegia il “liberismo” letterario: disprezzo per i canoni, per i generi letterari codificati, tentativo di “oggettivizzare” l’arte epurandola da ogni implicazione sentimentale, ma, in realtà (e questa è, a detta dei critici, la dimensione del miglior C.), abbandono nella pagina che diventa pura e semplice “scorreria dell’Immaginazione”.
La complessità di atteggiamento estetico che caratterizzava il C. e gli altri li condusse abbastanza presto a confluire nel futurismo; ciò che li attirava non erano solo molte analogie di intendimenti estetici, ma tutto un insieme di fattori teorici, e, in fondo, già politici, che fungevano da elemento di coesione: un eclettismo programmatico, che da letterario si poteva facilmente tramutare in ideologico, ed il rifiuto di ogni legame con la tradizione (non è a caso che, molti anni dopo, il C. parlerà orgogliosamente del fascismo come dell'”antidottrina e l’antifilosofia per definizione”); e poi, il gusto del gesto plateale, il senso della vita come grottesca commedia, e, soprattutto, in quegli anni cruciali, il nazionalismo, l’irredentismo e il bellicismo, senza dimenticare l’anticlericalismo.
Il C. ed i suoi amici furono protagonisti di quello che i critici letterari definiscono il “secondo tempo” del futurismo fiorentino, quello che se dubbio maggiormente denuncia le sue implicazioni politiche, riunendosi nella redazione della rivista L’Italia futurista (1915-18 circa). L’esperienza di futurista militante del C. presenta una singolare duplicità di atteggiamenti. Dal punto di vista infatti della sua attività strettamente letteraria, egli, oltre a pubblicare il romanzo Retroscena (Firenze 1915;prefazione di Lyda Borelli), si segnalò per un’opera che raffina l’esperienza del poemetto in prosa, Notti filtrate (dedicato a Irma Valeria), pubblicato nel 1918a Firenze nelle edizioni de “L’Italia futurista”.
Per lo stesso autore, “sono dieci momenti di lirico sonnambulismo, nei quali i ricordi e le immagini si coagulano in essenza, lasciando filtrare l’inutile zavorra dei legamenti coordinatori”; si tratta in realtà di un futurismo meno esteriore e parolaio del solito con tracce di letture surrealiste ed una introspezione psicologica di tipo crepuscolare. Gli esiti felici di questa operazione quasi di “scrittura automatica”, sui modelli francesi delle letture mai abbandonate (e del resto non estranee al vasto bagaglio di conoscenze dei futuristi: circolava una traduzione futurista della Saison en enfer), hanno consentito ai critici una assai benevola “riscoperta” del C. letterato di questi anni.Sempre come futurista militante, il C. partecipò attivamente alla fondazione del Teatro sintetico futurista (1916)ed alla stesura (con, fra gli altri, Corra, Chiti, Settimelli) del Manifesto della scienza futurista (“antitedesca-avventurosa-capricciosa-sicurezzofoba-ebbra d’ignoto”), sempre nel 1916.Ma in quel giro di anni si maturava anche una ben altra evoluzione in senso politico del C., che ne rende la carriera umana e letteraria meritevole di attenzione e quasi emblematica di tutta una generazione di intellettuali.
Il C. partecipò con gli altri futuristi (Marinetti, Settimelli, Balla, Cangiullo furono in prigione per questo) alla campagna per l’intervento in guerra dell’Italia contro gli Imperi centrali. Fu in guerra volontario nei reparti degli arditi, raggiungendo il grado di capitano; fu ferito in prima linea, sul monte Solarolo, meritando unamedaglia d’argento al valore e la croce di guerra. L’esperienza di guerra gli ispirerà più tardi Il mio cuore fra i reticolati (Milano 1933).Dopo Caporetto, fondò con Marinetti e Settimelli il periodico Roma futurista, che veniva diretto proprio dal fronte.
Dagli anni 1917-18 viene decisamente in luce un aspetto non certo nuovo della personalità del C., ma certo indicativo di una sua notevole “maturazione”; la vera vocazione del C. era dunque quella di attivizzare e dirigere in senso politico, e pragmatico, gli elementi ideologici che il futurismo gli aveva presentato in forma abbastan a generica. Il passaggio dal futurismo al fascismo attivo e militante può apparire oggi automatico o addirittura “necessario”; si può empiricamente verificare che questo passaggio nella maggior parte dei casi avvenne, ed è vero che la componente futurista appare fra le più organiche al “terrificante ircocervo” che fu l’ideologia fascista (così la definisce Pietro Meldini a p. 163 delle sue note a Reazionaria) ;Piero Gobetti, Rivoluzione liberale, 26 febbr. 1924, dava per scontati i legami tra futurismo e fascismo, proprio citando il C., con Settimelli, Bottai e Bolzon e del resto gli stessi fascisti tesero poi ad accentuare questa continuità.
Tuttavia la transizione non fu immediata né esente da travagli. Già nel 1918 il C., Marinetti e Settimelli avevano fondato i Fasci politici futuristi; il C. era il massimo animatore, con Bottai e Bolzon, di quello di Roma, ma il movimento ebbe una certa diffusione anche nelle altre grandi città italiane. Da questi gruppi, e sempre per iniziativa del C. primo fra gli altri, nacque un vero e proprio Partito politico futurista, il cui programma (si veda il Manifesto)era un grande calderone piccolo borghese di nazionalismo, patriottismo, antidemocraticismo ed antiparlamentarismo, con venature populiste. Intanto, la fine della guerra e le agitazioni irredentistiche sulla parola d’ordine della “vittoria mutilata”, nonché il culto del combattentismo consentivano al C. di precisare ancora meglio la qualità del suo impegno politico, che usciva ora dallo stretto rapporto con il futurismo, pur conservando legami sostanziali con esso.
Il 7 genn. 1919 il C. fondava a Roma, appoggiandosi al Roma futurista, la prima Associazione degli arditi d’Italia, presto seguito da Marinetti e Ferruccio Vecchi a Milano; sempre a Milano, nel febbraio dello stesso anno, nasceva il giornale L’Ardito, diretto dal C. e dal Vecchi. La filosofia dell’arditismo, che rappresenterà da ora in poi il nucleo centrale della ideologia del C., destinato a rimanere se immutato nel corso degli anni seguenti (si veda ad es. Arditismo, che è del 1929), univa ad un generico attivismo ed al culto della forza un feroce sarcasmo contro il liberalismo ed il parlamentarismo; vi si trovavano poi un nazionalismo spinto, e, significativamente, già il culto del “santo manganello” e la diffidenza verso ogni tipo di “cultura”, insieme al senso di appartenere ad una “aristocrazia ideale” che conteneva espliciti elementi di razzismo biologico ed intellettuale. Componenti, queste ultime, senz’altro rapportabili alla matrice futurista del movimento; a testimonianza dei legami tuttora esistenti, si veda il numero unico Vittorio Veneto (sempre del 1919) in cui il C. tracciava un ritratto dell’ardito, futurista, sottolineando come esso “sarà l’elemento irresistibilmente vivificatore e propulsore di ogni Partito, di ogni Lega, di ogni Associazione politica o no”.
L’arditismo, presto diffusosi in tutta Italia, fu certamente fra i più legittimi precursori del fascismo mussoliniano. Il C. fu, infatti, con Marinetti, Vecchi, Corra ed altri, all’assemblea costitutiva dei Fasci di combattimento (Milano, piazza S. Sepolcro, 23 marzo 1919); in questa sede il C., nella duplice veste di futurista e di ardito, rappresentava ufficialmente i Fasci pubblici futuristi. Nell’aprile il C., insieme a Bottai, figurava tra i fondatori dei Fasci romani.
Altra tappa fondamentale nella carriera del C. fu, nel settembre del 1919, la sua partecipazione all’impresa di Fiume condotta da Gabriele D’Annunzio; da questa esperienza avrebbe tratto, l’anno dopo, il volume Con D’Annunzio a Fiume (Milano 1920). L’avventura fiumana acuì il suo atteggiamento contestativo, che si esprimeva violentemente nel periodico La Testa di ferro, da lui diretto a Milano. Tanto è vero, che, nel dicembre del 1920, il C. ed altri arditi collaboratori di La Testa di ferro furono arrestati dalla polizia milanese, sospettati di aver preparato attentati con alcuni anarchici. Sempre nel 1920 il C. aveva firmato con Marinetti e Settimelli un Che cos’è il futurismo, in cui, con un riassunto della passata attività politica dei futuristi, si dava anche il loro programma che potremmo definire “sansepolcrista spinto”.
In quegli anni, intanto, il C. proseguiva intensamente la sua attività letteraria, pubblicando Addio, mia sigaretta! (Milano 1919), ed i romanzi Siibrutale, amor mio (Ibid. 1919) e Trillirì (Piacenza 1922), di non cospicuo interesse. Più notevole sarebbe apparsa, nel 1923, la raccolta La mia divinità (Roma) che, con Notti filtrate, ne riproponeva i testi classificabili come poemetti presurrealisti.
Politicamente e umanamente. gli anni fra il 1920 e il 1922-23 furono assai travagliati per il C; futurismo, arditismo e fiumanesimo (che sarebbe però stato in parte sconfessato a causa della “degenerazione” degli “pseudosindacati” dannunziani) si fondevano in un singolare complesso, oggettivamente destinato a confluire nel fascismo, ma non senza difficoltà. Nel 1920 Marinetti era uscito (ridicolizzato) dai Fasci, destinato a rientrarvi assai presto, comunque. Anche il C. fu fra coloro che nutrirono sospetti nei confronti di ciò che si considerava una scarsa intransigenza rivoluzionaria rispetto ai programmi del ’19, o, in breve, di un presunto “imborghesimento” del fascismo mussoliniano. A questo si univa però una sua particolare ammirazione per Mussolini, che sarebbe poi divenuta culto fanatico (ricordiamo che nel 1923 Mussolini dovette diffidare il C. e Settimelli dal definirlo “sacro”).
Il C. dirigeva allora, con il Settimelli, il periodico milanese Il Principe, che si definiva “settimanale monarchico fascista”; nel nome di Mussolini si maturava la sua definitiva adesione al fascismo, che si concretò nella partecipazione alla marcia su Roma. Poco tempo dopo, sul Principe (e poi sul Popolo d’Italia)comparve a firma del C., e di molti altri, fra cui Carrà, Funi, S. Gotta, Marinetti, Settimelli, Sironi, Un omaggio a Mussolini di poeti, romanzieri e pittori, in cui Mussolini era salutato come “l’Uomo che saprà giustamente valutare le forze della nostra Arte dominante sul mondo”.
Vi fu tuttavia ancora un contrasto di non lieve entità; come esponente del comitato centrale della Federazione nazionale arditi d’Italia (sorta in polemica con la Associazione nazionale arditi d’Italia, di ispirazione dannunziana), il C., tramite il sottosegretario agli Interni Finzi, inviava nel novembre del 1922 un memoriale al capo del governo.
In esso si tentava di convincere Mussolini ad accettare il confronto dialettico con formazioni di sicura fede, come quelle degli arditi o degli ex legionari fiumani, che per il C. avrebbero dovuto svolgere la funzione di “organizzazione… superiore ed ideale” del movimento, conservandosi però autonome. L’insistenza per l’autonomia nasceva da molte ragioni: innanzitutto da una concezione che vedeva nella politica attiva solo un modo di imborghesirsi e cedere, poi dalla solita sensazione di appartenere a una élite spirituale in certo senso inclassificabile; da un giudizio severo sulla classe politica italiana, cui non ci si voleva assolutamente mischiare; infine, dalla componente irredentistica dell’arditismo, che considerava ancora irrisolte molte questioni, come quelle del Montenegro e della Dalmazia. Mussolini, che aveva chiosato di suo pugno il memoriale non certobenevolmente, fece rispondere seccamente che “la azione degli arditi difficilmente si può differenziare da quella dei Fasci… Dove essa ne diverga… cade nell’illegalismo…. Meglio dunque una completa fusione, come vuole la logica”. Così avvenne (memoriale e risposta si trovano in Arch. centrale dello Stato, Min. Interno, Gab. Finzi, b. I, fasc. 4).
Nell’ambito del fascismo al potere il C. viene generalmente classificato come esponente della “sinistra farinacciana”; la definizione è pertinente solo se si tiene conto della particolare connotazione di “destra più a destra” che assume in questo contesto il termine di “sinistra”, e se non si dimenticano gli antecedenti particolari della sua carriera umana e politica.
Certo, nel vasto panorama della “dissidenza” interna al fascismo non si può dubitare che il C. fosse fra i più devoti a Farinacci; quando, nel 1925, il gerarca cremonese fu sostituito da Turati alla segreteria del partito, il C. andò con Settimelli ed altri ad insultare Malaparte (che sul suo La conquista dello Stato aveva attaccato Farinacci) in via Sistina, a Roma. Malaparte li sfidò poi a duello. Farinacci era amico personale del C. e scrisse nel 1926 la prefazione al suo libro Fascismo intransigente (raccolta di articoli di fondo da L’Impero);di Farinacci l’ideologia e la prosa del C. giornalista fascista hanno, in parte, la rozzezza e la canaglieria apparentemente incolta e brutale.
Il fascismo intransigente del C. si nutriva soprattutto di nostalgie prediciannoviste; praticamente dimenticate le vaghe sollecitazioni populiste o sansepolcriste che avevano, in parte, caratterizzato la sua maturazione fascista, la sua aspirazione alla farinacciana “seconda ondata” della rivoluzione fascista appariva giustificata soprattutto dalla nostalgia dell’arditismo e dell’intransigenza morale e politica ad esso connessa. Anche il futuriamo, come bella e ardente stagione della giovinezza, faceva saldamente parte di queste nostalgie; il 1º marzo 1925 il C. e Settimelli organizzarono a Roma, al cabaret del Diavolo, un banchetto per duecento persone in onore di Marinetti; nel settembre del 1928, ancora con Settimelli, il C. avrebbe organizzato a Roma le celebrazioni per il X amiversario della fondazione del Partito politico futurista (dirà poi Settimelli nel suo Eddacontro Benito, Roma 1952, per “…ricordare a Mussolini che prima di lui erano stati E. Corradini e Marinetti”). Senza contare la costante collaborazione dei vecchi amici futuristi a L’Impero e agli altri giornali del Carli.
Sebbene del fascismo il C. non avesse mai perfettamente compreso la “ragione politica”, egli divenne progressivamente uno dei giornalisti e scrittori di maggior successo, – responsabile per la sua parte della invenzione e diffusione di un certo stile disinvoltamente becero e insultante, in cui le marinettiane “parole in libertà”, pur conservandosi nella forma, si misero al servizio del regime con rara efficacia. Come giornalista e scrittore il C. ricoprì anche incarichi ufficiali: fu membro della commissione superiore della stampa, del direttorio nazionale del sindacato scrittori e della commissione di lettura della Libreria del Littorio; fu poi console della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.
Il C. (che si era anche sposato, a Firenze, il 21 luglio 1923, con Maria Gristina) svolse negli anni fra il 1924 e il 1930attività pubblicistica intensa e di successo, senza però raggiungere la (pur retriva) dignità letteraria di Malaparte o gli originali risultati di Maccari e Strapaese;la sua chiave sembra essere tardo-dannunziana o nostalgica e agiografica, come risulta dal suo “romanzo storico dell’era fascista” L’italiano di Mussolini (Milano 1930;premio Labia). Ricordiamo poi Marvana mistero d’amore (ibid. 1927)e le raccolte di scritti politici Cervelli di ricambio (Roma 1928), Colloqui coi Vivi (ibid. 1928), Antisnobismo (Milano 1929), Arditismo (Roma 1929), Bottai e le corporazioni (ibid. 1929), un profilo agiobiografico del Bottai, oltre al già citato Fascismo intransigente, forse la più significativa raccolta di articoli; in essa si trova fra l’altro una “Galleria del disfattismo”, che mette in berlina i più bei nomi dell’antifascismo, da Albertini a Sturzo ad Amendola a Croce, lapidariamente definito “il Ninfo Egerio dei tonti”.
La sua organicità di intellettuale al regime si espresse anche nella firma al “Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni”, redatto da G. Gentile in occasione del 1º convegno fascista di cultura (marzo 1925).
L’attività del C. giornalista del regime, oltre che a collaborazioni ai principali quotidiani d’Italia e a varie riviste, è soprattutto legata al giornale L’Impero, che egli fondò e diresse col Settimelli fino a tutto il 1929. Il primo numero del giornale usciva il 10 marzo 1923, “130 giorni dopo la marcia su Roma”, come è scritto sulla testata; fino al 1927 esso fu “quotidiano politico fondato da Carli e Settimelli, organo della Federazione fascista autonoma delle Comunità artigiane”, e poi semplicemente “quotidiano fascista”. L’Impero (che nel titolo riproduce un mito nazionalimperialistico alla cui realizzazione il C. non avrebbe potuto assistere) fu uno dei molti giornali che sorsero in quegli anni su sovvenzione di industriali filofascisti; in particolare, esso apparteneva alla società “La Vita d’Italia” (il cui amministratore delegato era Filippo Filippelli, direttore del Corriere italiano e poi implicato nel delitto Matteotti), finanziata dall’industriale piemontese sen. Dante Ferraris e dall’armatore Luigi Parodi.
L’Impero, nonostante la forma scapigliata e le evidenti nostalgie di una primitiva e mai ritrovata purezza spirituale, aveva una sua precisa funzione fra gli organi di stampa del regime; gli venivano consentite posizioni di rottura ed una certa polemica, beninteso sapendo che la fedeltà al fascismo e al duce costituivano proprio l’esca della presunta “dissidenza”. Mussolini, data la sua esperienza di giornalista, aveva compreso i vantaggi, la funzionalità e soprattutto la non pericolosità di questo genere di fronda fedelissima, che formava del resto l’opinione di una cospicua parte di fascisti “della prima ora”. In una lettera a C. Rossi del 28 maggio 1923 egli parla di un dettagliato piano organizzativo della stampa fascista, dicendo fra l’altro: “Per avere una certa latitudine di atteggiamenti, anche L’Impero può essere utile, in un dato momento” (cfr. Arch. centrale dello Stato, Segr. part. del duce, b. I, fasc. 1, sottofasc. B, cit. da R. De Felice, Mussolini il fascista, I, Torino, 1966, p. 392).
La svolta seguita al famoso discorso del 3 genn. 1925 colpì anche L’Impero (che pure aveva caldamente appoggiato il giro di vite), soprattutto per i suoi attacchi al ministro filoliberista A. De Stefani (già definito nel ’24 “liberale truccato da fascista”); ma i sequestri non furono particolarmente gravosi per i due direttori, che, subendoli, verificavano insieme all’intransigentismo, anche il proprio spirito di sacrificio: in Fascismo intransigente il C. riporta orgogliosamente l’articolo Natale senza luce con l’indicazione “sequestrato”. In occasione poi dei patti lateranensi, il C. e Settimelli furono costretti a rivedere precipitosamente le loro posizioni, che erano state fino all’ultimo di incredulità e di persistente anticleralismo (ma il C. nel 1926 aveva approvato la decisione mussoliniana di ripristinare l’insegnamento religioso nelle scuole).
Del resto, in un articolo comparso sul settimanale Oggi e domani (che egli diresse per un certo tempo dopo aver lasciato L’Impero) proprio il 3 genn. 1932, il C. ricordava liricamente e acriticamente i provvedimenti politici presi nei primi mesi del 1925, ribadendo la propria completa adesione (pure con personale sacrificio) a quella “grande bonifica”.
Dopo il 1930 il C. perfezionava la propria partecipazione all’establishment intellettuale e politico italiano; come letterato, si dedicava ad opere impegnative come Carducci e la Nuova Italia (Firenze 1931) e una Antologia degli scrittori fascisti (Firenze 1931), curata in collaborazione con G. A. Fanelli, in cui egli stesso è rappresentato in pagine che testimoniano della particolare qualità del suo fascismo della prima ora, nutrito soprattutto dei ricordi di ardito e di fiumano. Anche il già citato Ilmio cuore fra i reticolati testimonia di questo costante ritorno alle esperienze umane e politiche della giovinezza.
Intanto il C. era entrato a far parte del corpo consolare, divenendo console a Porto Alegre, in Brasile; la sua salute cominciava tuttavia a declinare, per cui egli necessitò di un periodo di riposo in Italia, dopo il quale fu destinato, come console generale d’Italia, a una sede più vicina, Salonicco. In Grecia rimase però pochissimo, preferendo tornare a morire in Italia.
Morì infatti a Roma nella notte fra il 9 e il 10 sett. 1935.